VIENI A DIGIUNARE CON NOI
Venerdi 15 marzo, dopo la via Crucis nelle strade del nostro quartiere, ci troveremo nei locali della parrocchia per una cena di solidarietà con la quale vogliamo dare maggior forza e senso alla nostra Quaresima.
Di cosa si tratta? Un piccolo ma simbolicamente importante gesto: riflettere e vivere il digiuno.
Perché? Il cristianesimo, fin dalle sue origini, attingendo alla tradizione ebraica e per imitazione di Gesù Cristo ha mantenuto ed alimentato la tradizione del digiuno quale strumento di penitenza, di conversione, liberazione dalle forze di schiavitù e condizionamenti che ci impediscono di volare verso la libertà dell’Amore di Dio.
Venerdi ci troveremo a mangiare un pò di pane e formaggio una tazza di caffè latte con pane, riflettendo sul senso di questa antica pratica ormai dimenticata o al massimo vissuta come dieta.
Ma vuol essere anche una forma di solidarietà e per questo le offerte che ognuno di noi vorrà e potrà dare saranno devolute alla Caritas parrocchiale.
——–
Il significato del DIGIUNO Cristiano
La vita pubblica di Gesù inizia con una preparazione atletica significativa: 40 giorni di digiuno nel deserto (Mt 4,2), attraverso cui lo stesso Gesù intratterrà una lotta contro il male. Il rapporto tra il digiuno e la nostra vita è un rapporto che va riscoperto. Al tempo di oggi si pensa che il digiuno sia una pratica legata soprattutto alla nostra estetica, al nostro apparire. Viviamo in un mondo che ha trasformato il digiuno in dieta. Ma la differenza è abissale. La capacità di astenersi dal cibo, e cioè da un bisogno fisico, è la capacità che il cristiano esercita per ribadire la sua libertà rispetto anche ai suoi bisogni. E’ come voler mettere in attenzione i bisogni del cuore (cioè il bisogno di senso), mettendo in secondo piano i bisogni dello stomaco (cioè tutto ciò che è legato alla nostra vita materiale). Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio…che tradotto significa che non ci renderà mai felice riempire semplicemente lo stomaco, ma nutrirci di qualcosa che riempia di senso la nostra vita, si. E attraverso il digiuno rimettiamo al centro qualcosa, anzi Qualcuno, che può riempire di senso la nostra vita.
Certo, il rischio di fare del digiuno un’opera meritoria, una performance ascetica è sempre presente, ma la tradizione biblica ammonisce che esso deve avvenire nel segreto, nell’umiltà (Mt 6,1-18), con uno scopo preciso: la giustizia, la condivisione, l’amore per Dio e per il prossimo: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?» (Is 58,6). Ecco perché anche la tradizione patristica è molto equilibrata, sapiente ed esigente su questo tema: «Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni» (Giovanni Crisostomo); «È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli» (Abba Iperechio); «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro il Presbitero)… Sì, il fine della vita cristiana è la carità, e il digiuno è sempre e solo un mezzo, ma la chiesa richiede questa prassi nella consapevolezza che il corpo va coinvolto nella preghiera e che la fatica: la lotta contro le tentazioni non possono essere ridotte a una dimensione intellettuale.
Così, per ritrovare la propria verità, quella verità umana che con la grazia diventa la verità cristiana, occorre pensare, pregare, condividere i beni, conoscere il male che ci abita, ma anche digiunare quale disciplina dell’oralità. Il mangiare appartiene al registro del desiderio, deborda la semplice funzione nutritiva per rivestire rilevanti connotazioni affettive e simboliche. L’essere umano in quanto tale non si nutre di solo cibo, ma di parole e gesti scambiati, di relazioni, di amore, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita e sostentata dal cibo. Il mangiare del resto dovrebbe avvenire insieme, in una dimensione di convivialità, di scambio che invece, purtroppo e non a caso, sta a sua volta scomparendo in una società in cui il cibo è ridotto a carburante da assimilare abbondantemente e il più sbrigativamente possibile.
Il digiuno svolge allora la fondamentale funzione di farci discernere qual è la nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente l’unico necessario. E tuttavia sarebbe profondamente ingannevole pensare che il digiuno – nella varietà di forme e gradi che la tradizione cristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, assunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua –, sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conosce l’indistinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli ‘mangia’, introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiuno è assolutamente peculiare e che esso non può trovare ‘equivalenti’ in altre forme di rinuncia: gli esercizi ascetici non sono interscambiabili!
Con il digiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri molteplici appetiti attraverso la moderazione di quello primordiale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre tentate di voracità.
Il digiuno è ascesi del bisogno ed educazione del desiderio. Solo un cristianesimo insipido che si comprende sempre più come morale sociale può liquidare il digiuno come irrilevante e pensare che qualsiasi privazione di cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita: è questa una tendenza che dimentica lo spessore del corpo e il suo essere tempio dello Spirito santo. In verità il digiuno è la forma con cui il credente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo, è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con lo psicologico.
Così il digiuno può assumere di nuovo i suoi connotati più marcatamente biblici e cristiani: non una pur sana disintossicazione dalla bulimia generalizzata, non una semplice pratica per ritrovare il benessere fisico, ma un modo di esprimere con tutte le fibre del nostro essere il fatto che vero nutrimento per noi è ogni parola che esce dalla bocca di Dio, un reimparare la disciplina dell’oralità perché noi siamo ciò di cui ci nutriamo e la nostra bocca parla dalla pienezza del cuore. Un modo, il digiuno, anche di condividere con semplicità e immediatezza i beni di questa terra, dati a noi perché diventino di tutti e non di pochi; un modo di richiamare la nostra vigilanza sul fatto che l’astensione da praticare non è solo e tanto quella da un boccone di cibo, ma dal nutrirsi dell’ingiustizia, dall’ingrassare in potere e ricchezza a spese degli ultimi, dall’ignorare il fratello nel bisogno.
In un tempo come il nostro in cui il consumismo ottunde la capacità di discernere tra veri e falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le terapie dietetiche divengono oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesi ripropongono il digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come l’equivalente del ramadan musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificità cristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fonda la domanda: «Cristiano, di cosa nutri la tua vita?» e, nel contempo, pone un interrogativo lacerante: «Che ne hai fatto di tuo fratello che non ha cibo a sufficienza?».
(sintesi di un’intervento di Enzo Bianchi) Link all’articolo originale
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.